Gli anni 60

Marini Dettina trovò una squadra che, come si è detto, necessitava solo di un paio di ritocchi per diventare irresistibile. Il nuovo presidente acquistò Benedetto Sormani e fu un colpo magistrale ideato e condotto a buon fine da Walter Crociani; fece tornare dal Galles John Charles e questo invece volle dire poco.
Contemporaneamente iniziò, d'accordo con certa parte della stampa, una lotta sorda ma tenace all'allenatore Carniglia. L'intento di Marini Dettina era quello di far fuori l'italo argentino e richiamare Alfredo Foni. Perché Marini Dettina voleva il ritorno di Foni? Semplicemente per prendersi una rivincita verso Anacleto Gianni che aveva esonerato il bravo Alfredo senza sentire il suo preventivo parere. Carniglia cominciò il campionato 1962-'63 con Marini Dettina, ma dopo le prime giornate fu esonerato. Fece il suo reingresso trionfale, come una volta Giorgio Sarosi, Alfredo Foni. E fu la fine sia della Roma .che di Marini Dettina. I «ritorni» nel calcio non sembrano mai producenti. Anche se sotto di lui la Roma a Torino conquistò la Coppa Italia, Alfredo Foni fu esonerato dallo stesso presidente che lo aveva riassunto. Al suo posto venne ingaggiato un certo Mirò, uno spagnolo che combinò pochissimo, anzi niente. Fuori anche Mirò e dentro J.C. Lorenzo prelevato dalla Lazio. La scelta di Lorenzo venne suggerita in modo determinante da un Consigliere della Roma amicissimo di Marini Dettina. Un Consigliere che al tirar delle somme si rivelò come la vera causa della lunga crisi giallo rossa e delle conseguenti sventure di Marini Dettina.
La Roma andava di male in peggio. Marini Dettina aveva. dato tutto quello che poteva, ma la situazione economico-finanziaria diventava ogni giorno più pesante. E poiché il presidente era ormai nell'impossibilità di dimostrarsi generoso verso tanti come aveva fatto fino allora, gli amici della buona sorte che poi sono «gli amici» tout court, uno alla volta, alla spicciolata, si allontanarono nella notte.
Dettero invece una mano al conte Marini e quindi alla Roma alcuni tra i pochissimi che a suo tempo avevano condannato il «colpo di Stato» contro Anacleto Gianni.
Arrivò il momento in cui la Roma fu al collasso vero e proprio. In questo penoso quadro si inserisce il triste episodio della ormai celebre «colletta del Sistina».
La Roma doveva partire per Verona ma non aveva neanche i soldi per il viaggio. Un cronista fantasioso ebbe una sciagurata idea: quella di organizzare un'adunata di tifosi al teatro Sistina perché con una «colletta» mettessero la Società giallorossa nelle condizioni di far partire la squadra. Marini Dettina non fu mai messo al corrente di questa stramba iniziativa. Lo sapeva soltanto l'allenatore Lorenzo. Data la bizzarria dell'avvenimento, intervenne la televisione. Così tutta l'Italia assistette all'umiliante spettacolo di una Roma che chiede le cento lire ai suoi tifosi più accaniti, ma anche più poveri. Losi girò per la sala con un secchio e raccolse circa 600.000 lire. Marini Dettina giustamente rifiutò la somma che restò nelle mani di Losi per lungo tempo inutilizzata.
Il punto culminante della crisi la Roma lo toccò in una partita all'Olimpico con il Messina. Venne sconfitta per 2 a 1 e l'incasso fu di poco superiore ai 4 milioni perché ormai la massa dei tifosi giallorossi aveva abbandonato la sua squadra del cuore.
Intanto Marini Dettina sopportava con dignità e fierezza la croce della sua disavventura. Non solo era stato abbandonato dagli «amici» ma addirittura veniva preso di mira da coloro che egli aveva tanto beneficiato. Non sarà mai abbastanza stigmatizzato il comportamento di chi, per dar sfogo a sue ambizioncelle personali, ha mandato al macello un gentiluomo come Marini Dettina e una grande e gloriosa società come la Roma.
Dopo la «storica» sconfitta con il Messina, il fatto nuovo: l'On. Franco Evangelisti si muove e decide di convocare i tifosi romanisti perché impongano al conte Marini Dettina di ritirarsi e lasciare il posto ad un altro presidente. Qualcuno però consiglia al dinamico uomo politico di non impegnarsi in una lotta contro Marini Dettina, ma di collaborare invece per tentar di salvare il salvabile. Evangelisti seguì il consiglio. Andò a trovare Marini Dettina nella sede della Roma, gli offrì la sua operante solidarietà e si accordò con lui.
Il conte era psicologicamente e fisicamente distrutto. Accettò la collaborazione di Franco Evangelisti e rinunciò alla carica di Commissario Straordinario, passò all'onorevole la presidenza della sezione calcio e tenne per sè quella di presidente Generale.
A quel punto, eravamo a metà del 1965, cominciò l'opera lenta, difficile, ma costante della ricostruzione della Roma. Il primo imperativo era quello di contrarre le spese. Lorenzo che già dodici anni fa costava 60 milioni l'anno tutto compreso, non vide il suo contratto rinnovato. A lui subentrò don Oronzo Pugliese che si accontentò di 15 milioni l'anno. Fu creato il nuovo Consiglio Direttivo che riunì uomini come Nino Amati, Alvaro Marchini, Renzo Baldesi, Dino Viola, Franco Ranucci, Aldo Pasquali e altri. L'anno dopo, per iniziativa di Franco Evangelisti, venne cooptato anche Gaetano Anzalone. Il conte Marini Dettina era il Presidente Generale, ma già pensava di ritirarsi in silenzio e con molta discrezione come era nel suo stile. C'erano stati l'avvento di Franco Evangelisti e del nuovo Consiglio, ma tutto il peso economico della società gravava ancora sulle spalle di Marini Dettina. Si fecero, come suoI dirsi, i conti. Si stabilì che la Roma fosse debitrice verso Marini Dettina soltanto delle somme portate in bilancio. Tutte le altre spese extra, tutti gli inevitabili «sottobanco» per giocatori e public-relations li doveva pagare di tasca sua il presidente Generale. Stricto jure poteva essere anche regolare; dal punto di vista umano, no. Perché venivano «soffiate» a Marini Dettina le tante centinaia e centinaia di milioni che lui aveva speso nell'interesse della Roma e che non aveva potuto iscrivere nel bilancio. Basti pensare che ufficialmente l'acquisto di Sormani fu portato in bilancio per cento milioni (e ne era costati circa cinquecento!).
Intanto la Roma vivacchiava in attesa del prestito federale e della trasformazione in S.p.A. Il prestito federale fu il più alto concesso alla Serie A, cioè 620 milioni: la sottoscrizione azionaria portò altri 400 milioni. Cosicché furono fatte «rientrare» le banche creditrici di Marini Dettina.
Con l'avvento della S.p.A. Marini Dettina si ritirò dal calcio. Il suo nome però è sempre ricordato dagli sportivi come il simbolo di quello che poteva essere e purtroppo non è stato. L'inesperienza gli fece dar credito a certa gente che porterà in eterno sulle spalle la responsabilità di aver troncato l'ascesa di una Roma che si presentava con tutte le carte in regola per diventare la prima società di calcio d'Italia, se non d'Europa.

Marchini ed Herrera

Oronzo Pugliese durò tre anni. Tre anni di mediocrità alla quale la Roma venne condannata dal difficile periodo post-Marini. Nel 1968 Franco Evangelisti, anche perché assorbito dalle cure della vita politica, comunicò al Consiglio di voler lasciare la presidenza della Roma S.p.A. Si dovette così eleggere un altro presidente. Preso alla sprovvista, il Consiglio stabilì di dare una soluzione interlocutoria alla crisetta. E pregò l'avv. Franco Ranucci di subentrare pro tempore all'on. Evangelisti. L'avv. Ranucci si dichiarò disposto, dopo di che si cominciò con calma a pensare ad un nuovo presidente a tempo (e portafoglio) pieno, se così si può dire. All'unanimità la scelta cadde su Alvaro Marchini.
Il dottor Alvaro Marchini, che già era nel Consiglio giallorosso, si presentava come un personaggio di primissimo piano. In affari era uno dei più importanti costruttori d'Italia; idealmente aderiva da sempre al P.C.I. in seno al quale aveva ricoperto incarichi di estrema fiducia. La sua colorazione politica (che peraltro Marchini non faceva pesare su nessuno), non fu di ostacolo alcuno alla sua nomina a presidente della Roma. E questo è uno dei lati positivi e perfino più affascinanti della grande società giallorossa capitolina; quello di superare ogni differenza sociale, economica e politica quando sono in ballo le sorti e le fortune dei suoi colori. Insieme alla milanese Inter, la Roma è l'unica società in Italia che riunisca ed amalgami in fraterna comunione di intenti ricchi e poveri, aristocratici e plebei, professori universitari e spregiudicati giovanotti di periferia.
Il primo ad appoggiare la candidatura di Alvaro Marchini fu il democristiano Franco Evangelisti. Tanto che qualcuno, riandando a circa dieci anni fa, sostiene oggi che quello fu il primo serio tentativo di attuare il cosiddetto « compromesso storico».
Tutti d'accordo sul nuovo presidente, meno uno: Alvaro Marchini. I motivi della sua resistenza erano parecchi: la poca conoscenza dell'ambiente, il concetto troppo romantico che si era fatto dell'organizzazione calcistica, il tempo troppo scarso da dedicare al nuovo incarico. Poi, come era inevitabile, Alvaro Marchini cedette alle pressioni che gli venivano da ogni parte. E fu eletto presidente della Roma.
Eravamo a metà del 1968. Un giornalista romano confidò a Marchini che la Roma, se avesse voluto, avrebbe potuto ingaggiare Helenio Herrera. Con la rinuncia di Angelo Moratti, anche Herrera e Italo Allodi avevano lasciato l'Inter. Il «mago» era quindi sulla piazza. E' vero che per una precisa norma federale gli allenatori stranieri in Italia non potevano cambiare società; ma per Herrera, sussurrò il giornalista all'orecchio del nuovo presidente, si sarebbe potuto trovare un escamotage. Il neo-presidente rifletté a lungo su questa proposta, anche perché la Roma solo da un mese aveva rinnovato per il quarto anno consecutivo il contratto ad aronzo Pugliese. Poi dette il suo consenso all'operazione-Herrera perché pensava che la Roma, per tentare la scalata alle grandi affermazioni, aveva bisogno innanzi tutto di un allenatore di fama mondiale. Ed Herrera venne alla Roma.
Il primo anno del «mago» in giallorosso fu mediocre. Qualcuno incominciò a sospettare che H.H. senza Suarez, senza Moratti e senza Allodi rendesse molto, ma molto meno di quanto si pensasse. Gli oppositori del «mago» cominciarono a farsi vivi anche all'interno del Consiglio. Il più accanito contestatore era il dottor Gaetano Anzalone che allora curava la parte giovanile giallorossa. Herrera aveva azzardato giudizi un pò pesanti su Anzalone e la sua giovane corte per cui il dissidio non tardò a farsi aperto e incontenibile. Anzalone voleva far fuori il «mago» fin dopo il suo primo anno. Non ci riuscì perché non solo Marchini confermò l'allenatore per il secondo anno, ma, pressato dal solito Consigliere amico del famoso tecnico, arrivò a pagargli per un solo campionato, il secondo, la bellezza di 259 milioni! E pensare che fu l'anno in cui Herrera fece rischiare la retrocessione alla sua squadra! Fu l'anno in cui nell'ultima giornata di campionato, con la Roma battuta all'Olimpico dal Bologna, il «mago» venne portato in trionfo dalla folla che entusiasta aveva invaso il campo a fine partita. Misteri del calcio romano, disse qualcuno. Misteri un pò troppo facilmente penetrabili, come si vide dopo, quando si volle vedere chiaro in certe strane organizzazioni.
Arriviamo così all'ormai famosa questione dei «3 gioielli», cioè Spinosi, Capello, Landini. Gli avversari del dottor Marchini se ne sono fatti un'arma per combatterlo e scalzarlo dalla presidenza. In realtà dopo tanti anni, tutti ormai hanno capito («a carte viste» come suoI dirsi) che la transazione fatta con la Juventus si era rivelata un affare per la Roma. L'unico vero punto debole di quella complessa operazione era il nome della controparte: Juventus! Se Alvaro Marchini l'avesse conclusa con qualsiasi altra società, la campagna che lo vide oggetto di indegne contestazioni freddamente organizzate, non avrebbe trovato rispondenza nell'umore dei tifosi. Invece la tesi di alcuni giornali, per i quali la Roma non poteva essere considerata una succursale della Juventus, fece presa su molti animi. Non si tenne conto che l'unico giocatore di classe al di sopra della media era Capello e che in cambio di Capello erano stati «girati» dalla Juve altri fortissimi giocatori, oltre ad una ingente somma di denaro che dava una buona «sistemata» al sempre pesante bilancio sociale. Basti dire che oggi, in pieno 1977, il solo Zigoni, ceduto alla Roma dalla Juventus insieme allo spagnolo De Sol, da solo vale sul cosiddetto mercato più di Capello, Spinosi e Landini messi insieme. La verità è che Alvaro Marchini agì da saggio amministratore e non da tifoso. Il che nel mondo del calcio non è sempre accetto, non è sempre opportuno.

Tratto dal libro AS Roma da Testaccio all'Olimpico (libro edito nel 1977)

 

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